25 ottobre 2007

Barcellona: sfratti e violenza al Bon Pastor




“Mia figlia ha un polso lussato da una manganellata della polizia. Dice, mi fa ancora male. E io: abbiamo uno spray che ti fa passare il dolore, a casa. Come l’ho detto, mi è sceso il gelo addosso. Casa non esiste più.”
Barcellona, come tante città di cui siamo orgogliosi, è bella buona e colta. E se non sei “bello” “buono” e “colto” in queste città non ci puoi stare. La signora Aurora ha abitato fino alla settimana scorsa al Bon Pastor, un quartiere popolare di Barcellona, piccole case (casas baratas) costruite nel 1929 per gli operai. In quella casa c’è nata lei, c’è nata sua madre e c’è nata sua figlia. L’avevano sistemata nel corso delle generazioni, resa confortevole, fatta propria, sentita come cosa loro anche se continuavano a pagare un affitto. Era un quartiere di case basse, colorate, in cui i vicini si conoscono, si incontrano in strada, i bambini girano per il quartiere come un paese. Non un paradiso romantico, normali tensioni fra vicini e verso i gitani. Ma un posto vivo dove vivere. Da più di un anno, lei e altre quattro famiglie resistevano al progetto del comune, modernizzatore e progressista, che intende liberare quella ormai pregiata zona urbana (ci deve passare l’Alta Velocità, si sposterà altrove uno stabilimento della Mercedes per favorire l’uso speculativo dei terreni…) e trasferire gli abitanti in moderni appartamenti. Nel corso del tempo, la comunità si è divisa e frantumata, una parte ha accettato la proposta, altri hanno trattato, altri ancora – come la signora Aurora e i suoi vicini – avevano resistito. C’era stata una grossa inchiesta socio-antropologica, una campagna di solidarietà, gruppi di appoggio dei collettivi e dei movimenti, lettere di supporto da tutto il mondo, un progetto alternativo elaborato da architetti solidali. Non è servito a niente. Il “progresso” non si ferma (anche a Roma, a Tor Sapienza, per aprire la strada all’Alta Velocità, sono volati i manganelli. Per non parlare della Val di Susa).
Venerdì mattina, alle otto, si presenta in forze la polizia, entrano in casa, le danno pochi minuti per prendere le sue cose di tre generazioni e andarsene. Lo sgombero è illegittimo, non tutte le vie legali sono state percorse e concluse, ma non conta. Vicini solidali e compagni dei gruppi di appoggio si raccolgono, gridano, protestano. Improvvisa, completamente a freddo, parte la carica. I manganelli piombano su vecchi, donne, malati, bambini. Un poliziotto afferra per la gola José, il marito di Aurora. Urlando, corrono dietro a un attivista del gruppo di appoggio, lo coprono di manganellate in testa e sulle braccia, lo trascinano in un furgone, le perquisiscono, lo riempiono di botte, lo minacciano (“te vamos a enmarronar,” ti roviniamo, ti mettiamo nei guai). Un giornalista ne esce con un dito rotto, che è un peccato per lui ma una cosa utile perché così tutte le televisioni di Spagna per una volta fanno vedere come veramente sono andate le cose, la carica brutale, immotivata, l’accanimento insensato. Nei suoi racconti, la signora Aurora insiste sul terrore, il disorientamento, la perdita di senso che legge negli occhi del suo cane – il grado zero dell’innocenza inspiegabilmente offesa.
Giro per il Bon Pastor il giorno dopo. Sul selciato, fotografo il sangue di Sergio, un ragazzo del quartiere che gira adesso con una grande benda sul sopracciglio spaccato dai manganelli. Le case sono già murate, i tetti sfondati – efficienza, sollecitudine. Sulla facciata della casa di Aurora e José, la scritta “seguimos viviendo,” siamo ancora vivi, abitiamo ancora qui, diventa un’accusa rossa alle guardie che dalla camionetta vigilano che nessuno si avvicini.
Le famiglie sono state trasferite “temporaneamente” in un albergo, anche confortevole. Scherzano, ironizzano – “non mi voglio perdere neanche un pasto a spese del comune” – sembrano sereni e tranquilli, fanno come se fossero in vacanza. Ma non riescono a dormire, tormentati da immagini che non credevano nemmeno di ricordare. In un’assemblea al centro di Barcellona, uno di loro dice, “abbiamo perso una battaglia, non abbiamo perso la guerra.” Continueranno a vivere, ma altrove. Al Bon Pastor non ci torneranno più. Ma prosegue la battaglia legale: se devono andare a chiudersi in un appartamento, almeno lo vogliono come dicono loro e dove vivono loro, e con un indennizzo che tenga conto non solo delle perdite materiali ma anche del dolore.
Lo stesso giorno dello sgombero forzato, il governo Zapatero prova a varare una legge sulla memoria storica, insoddisfacente ma che almeno dice una cosa che in Italia stiamo demolendo: non si possono mettere sullo stesso piano gli antifascisti e i fascisti, i franchisti e i repubblicani (la chiesa cattolica, ostinatamente filofranchista, risponde beatificando le proprie vittime della guerra civile e sprezzando religiosamente tutti gli altri). E proprio mentre da un lato il governo cerca di proteggere la memoria, dall’altro un pezzo di storia e di identità di Barcellona (e dell’Europa popolare, antifascista, radicata) si avvia a scomparire sotto i manganelli e lo sventramento.
Il giorno dopo lo sgombero, era già programmata un’assemblea dei quartieri in lotta di tutta Barcellona. Il luogo si chiama il Forat de la Vergonya, il “buco della vergogna”: uno spazio in un quartiere popolare storico che il comune voleva trasformare in un parcheggio e che gli abitanti, per una volta, sono riusciti a salvare per farne uno spazio pubblico e aperto. Seduti in cerchio, passandosi il microfono, ragazzi dei collettivi “okupa” e anziani dei quartieri popolari confrontano esperienze, provano a coordinarsi, in un insolito dialogo fra generazioni e fra storie. Sui palazzi intorno, striscioni appesi alle finestre proclamano: “I promotori immobiliari sono il cancro di questo quartiere. Fuori gli speculatori”; “La nostra dignità non è in vendita. Resistenza!”. Tutta Barcellona è investita da un processo di rinnovamento urbano che si manifesta sotto forma di espulsione degli abitanti storici da quartieri diventati appetibili. “Barcelona, posa’t guapa,” si legge sui manifesti e gli striscioni affissi dal comune in tutte le strade del centro: Barcellona, fatti bella. Per farsi bella, Barcellona caccia i barcellonesi dalla Mina, dal Raval, da Barceloneta, dal Bon Pastor. Ricordiamocelo, la prossima volta che andiamo a spasso per le Ramblas.

1 Comments:

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1:22 PM  

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