01 ottobre 2007

L'inesausta metamorfosi delle culture immateriali

il manifesto 29.9.07

Scriveva Ralph Waldo Emerson, poeta e filosofo del Rinascimento americano: “La sacralità inerente all’atto della creazione, all’atto del pensiero, viene trasferita alla sua registrazione. Il cantare del poeta era sentito come qualcosa di divino; pertanto, anche la canzone è divinizzata. Lo scrittore era uno spirito giusto e saggio; d’ora in avanti, allora, il libro è perfetto, e l’amore per l’eroe diventa amore per la sua statua.”
Quello di cui ci parla Emerson è la differenza fra un bene immateriale come processo, come azione – l’atto del cantare – e l’idolatria verso il suo consolidamento come testo, registrazione, libro, manufatto. L’atto, la capacità creatrice è quello che conta; il risultato ne è solo la testimonianza. Questo è tanto più vero in quelle culture che, affidandosi soprattutto all’oralità, producono i cosiddetti beni culturali immateriali: beni, cioè, che non consistono in oggetti o in testi, ma nella possibilità socialmente diffusa di crearli o ri-evocarli. Una tradizione infatti non è un repertorio di forme immutabili, bensì un processo in continua evoluzione, reso possibile dalla capacità dei suoi protagonisti di evocare memoria e di produrre cambiamento. Scrive Leslie Marmon Silko, scrittrice americana indiana Pueblo : “Oggi la gente pensa che le cerimonie devono essere eseguite esattamente come si è sempre fatto, e che basta un lapsus perché la cerimonia debba essere interrotta o il disegno di sabbia distrutto… Ma molto tempo fa, quando al gente ha ricevuto queste cerimonie, subito è cominciato il cambiamento, non fosse altro che per l’invecchiare del sonaglio di zucca giallo o il restringersi della pelle sull’artiglio d’aquila, se solo nella diversità delle voci di generazione in generazione di cantori. Vedi, in tanti modi, le cerimonie non hanno fatto altro cambiare.”
Lavorare per i beni immateriali della tradizione orale, allora, non significa proteggere l’immutabilità di culture folkloriche pensate come residui congelati di passati localistici (come nel folklorismo fascista che relegava il mondo popolare in uno spazio di subalternità con la pretesa di esaltarne le tradizioni). Significa, piuttosto, garantire il diritto e la possibilità che la tradizione si trasformi con i suoi stessi mezzi e secondo le proprie necessità, e che la trasformazione non sia né eterodiretta né imposta.
D’altra parte, la memoria stessa è soprattutto un processo: non un deposito di dati in via di progressivo disfacimento, ma una perenne ricerca di senso nel rapporto con il passato e nel riuso dei repertori culturali. Nessun cantore o suonatore eseguirà due volte lo stesso brano nello stesso modo, nessun narratore dirà due volte la stessa storia con le stesse parole, perché anche se vengono dal passato queste espressioni di materializzano nel presente e il presente vi irrompe con le sue domande e le sue richieste. Infatti gran parte delle forme espressive popolari sono destinate all’invenzione, all’improvvisazione: basta pensare allo stornello, al blues, all’ottava rima, persino al rap, ai muttus della tradizione sarda. In questo caso, il bene culturale non è la singola ottava o il singolo stornello, quanto la capacità del cantore o del poeta di reinventarne sempre di nuovi.
Per questo però, come scrive un’altra scrittrice Pueblo, Paula Gunn Allen, le culture che fanno affidamento sull’oralità sono sempre “a una generazione dalla scomparsa”: basta il silenzio di una generazione perché essere scompaiano. Le culture popolari hanno i loro specialisti ma non si affidano solo a loro: ciascuno mette mano alla loro continuità anche solo ripetendo (a modo suo) le espressioni trasmesse nella memoria culturale.
Come mediano fra memoria e innovazione, continuità e cambiamento, così le culture dell’oralità si collocano su un difficile e affascinante crinale fra il locale e il globale. Rinchiudere il “folklore”, dentro una definizione regionalistica locale è un’altra violenza. Proprio perché sono immateriali, le creazioni della cultura orale volano senza frontiere: nel Sud segregazionista degli Stati Uniti, la sola cosa che bianchi e neri condividevano era la musica. Una ballata come “Il testamento dell’avvelenato” la troviamo in nord Italia nel sedicesimo secolo, oggi nell’Italia meridionale, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, fatta propria da Bob Dylan e persino dai Led Zeppelin.
Questo non nega l’importanza della documentazione e della conservazione dei testi e degli oggetti. Nel suo “Elogio del magnetofono”, Gianni Bosio notava che proprio la possibilità tecnologica di fissare le performance della cultura orale rendeva possibile la loro conoscenza critica e quindi il riconoscimento della loro complessità e ricchezza. Questo è il compito della documentazione: i beni culturali immateriali non si identificano con le registrazioni, con i manufatti, con i testi raccolti negli archivi, nelle biblioteche, nei musei; ma abbiamo bisogno di archivi, biblioteche, musei per documentare la storia, per riconoscere le trasformazioni, anche semplicemente per mettere in scena il pubblico riconoscimento dell’importanza – più ancora che di questi oggetti – delle persone e dei gruppi sociali che li hanno creati e che continuano a farlo.
Gianni Bosio affermava, a proposito di culture non egemoni, che il lavoro culturale è destinato a trasformarsi in lavoro politico perché deve proteggere e creare politicamente le condizioni della propria possibilità: la libertà di parola e di comunicazione, l’uguaglianza, la presenza dialogica e antagonista del mondo popolare. Diceva Woody Guthrie: “la canzone popolare è forte se è forte il movimento operaio”: le culture popolari vivono se vive il potere sociale dei loro protagonisti e creatori, se e vivono le loro forme di rappresentanza organizzata e di presenza consapevole, i loro diritti civili e politici. Una politica di tutela e promozione dei beni culturali immateriali comincia con la difesa e l’allargamento della democrazia, della cittadinanza, del diritto di parola e, soprattutto, del diritto ad essere ascoltati. Comincia ripensando al grande insegnamento di Ernesto de Martino, quando ricorda i suoi anni di ricerca etnografica al Sud: “entravo nelle loro case,” soscrive, “come un compagno”, come un ascoltatore intento non ad estrarre da loro canti o formule o credenze, ma a vivere con questi uomini del nostro tempo, questi cittadini del nostro paese, dentro una storia che è la nostra stessa storia.

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