09 novembre 2010

Il Tea Party parla di noi

il manifesto 9.11.2010

Cominciamo con l’incipit di un testo sacro della tradizione progressista, democratica, anarchica, “Civil Disobedience” di Henry David Thoreau: “Di tutto cuore faccio mia l’affermazione: ‘Il migliore dei governi è quello che governa meno’, e vorrei vederla messa in pratica nel modo più rapido e sistematico”. Noi abbiamo sempre letto questo testo come manifesto utopia antiautoritaria, anarchica; ma un’altra tradizione legge invece queste parole come il proclama di un liberalismo estremo e di un antiautoritarismo e antistatualismo individualista di destra.No0n a caso, “libertario” è una parola di sinistra in Italia e di destra negli Stati Uniti. Dopo tutto, il gesto rivoluzionario di Thoreau – il rifiuto di pagare le tasse – risuona precisamente con gli argomenti di tutte le destre degli ultimi quarant’anni, compresa la retorica antistatuale del Tea Party.
Lo slogan della rivoluzione americana, quello per cui i rivoluzionari di Boston buttarono a mare le casse di tè inglese piuttosto che pagarci l’imposta, era “No taxation without rapresentation”: no semplicemente “niente tasse”, ma niente tasse senza rappresentanza (pochi ricordano, fra laltro, che i coloni americani pagavano allora meno tasse dei cittadini della madrepatria – ma questi ultimi erano rappresentati in parlamento, e loro no). Ora, fra degrado della politica e globalizzazione, quello che è andato in crisi è proprio la rappresentanza su cui si reggeva l’idea stessa di democrazia e la legittimazione della tassazione. Di qui la percezione (subita e alimentata anche dalla “sinistra”) che le tasse non vengano versate a un’istituzione che ci rappresenta per essere usate per il bene comune, ma che ci siano sottratte per essere sprecate o usate per fini che non conosciamo e non controlliamo, che dai soldi pagati non torni indietro niente. Forse la risposta di sinistra alla retorica antitasse della destra non dovrebbe essere di competere sullo stesso piano ma di provare a restituire ai cittadini la sensazione che lo stato siamo noi e non i “politicians” come li chiamano in America, o la “casta” come la chiamano qui.
Aggiungiamoci pure che da Thatcher e Reagan in poi l’idea che esista un “bene comune” non gode di grande popolarità. Non esiste la società, esistono gli individui, diceva Margaret Thatcher. E il gesto rivoluzionario di Thoreau è anche questo: la ribellione individuale, scaturita nell’esperienza solitaria della capanna nei boschi in cui sperimenta la possibilità di esistere fuori dello spazio socializzato della città – utopia ecologista per noi, ma metafora della frontiera se la guardiamo con altri occhi - di un singolo che contrappone la propria coscienza individuale alla legge di uno stato in cui non si riconosce e che non desidera.
C’è tutta la differenza del mondo, ovviamente, fra Thoreau che rifiuta di pagare le tasse perché non vuole prendere le armi e un Tea Party che rifiuta di pagarle perché ha paura che lo stato le armi gliele porti via. Ma anche al centro della rivolta di destra sta anche la preoccupazione che questo stato estraneo pretenda di interferire con la propria coscienza, con i propri valori morali e religiosi. E’ una preoccupazione che non appartiene solo alla destra. Martin Luther King e il movimento dei diritti civili contrapponevano alle leggi segregazioniste non solo i principi politici dell’eguaglianza fra i cittadini ma soprattutto quelli morali della “beloved community”, una comunità retta dal valore religioso della carità e dell’amore. Uno slogan del movimento delle donne negli Stati Uniti è “fuori lo stato dalle mie mutande”: lo stato si ferma al confine della nostra coscienza e del nostro corpo – sia per noi, sia per una destra che si mobilità attorno a suoi principi di religione, famiglia, comunità, sessualità.
Persino l’apparentemente inspiegabile ostilità alla riforma sanitaria ha a che fare con questo. Per noi, che consideriamo la salute un diritto, significa pretendere che lo stato usi i nostri soldi per darci i mezzi per vivere sani, per prevenire e curare le sofferenze del corpo e della psiche. Ma per una tradizione che limita la definizione dei diritti all’osso dei diritti formali dell’individuo, la riforma sanitaria può essere presentata come una pretesa dello stato di mettere le mani sui loro corpi e sulle loro coscienze.
Facciamo l’esempio più ridicolo ed estremo: la leggenda alimentata dal Tea Party secondo cui la riforma sanitaria prevedeva l’istituzione di “commissioni della morte”, che avrebbero deciso nel chiuso di segrete stanze governative quali anziani devono vivere e quali vanno soppressi (a proposito: la percentuale di votanti anziani è balzata dal 16% del 2008 al 23% nelle elezioni di medio termine del 2010). Non c’è dubbio che si tratta di paranoia.
Però. Sabato 6 novembre, in un programma televisivo di Rai 3, si dibatteva della possibilità tecnologica di deviare il corso degli uragani. A un certo punto, timidamente, il conduttore ha chiesto: chi decide dove mandarli? Massimo Cacciari, filosofo ed esponente della sinistra moderna, ha risposto: si può deviare un uragano in modo che non colpisca New Orleans e ammazzi migliaia di persone ma vada in una zona più spopolata e ne ammazzi dieci soltanto, ma è una cosa che non si può decidere in via democratica; lo può fare o un dittatore buono e santo, o una commissione di scienziati e di tecnici.. Cacciari parlava in modo sconsolato e ipotetico – ma l’atto di immaginare lucidamente un futuro in cui sia possibile una simile decisione autoritaria e\o burocratica su chi può vivere e chi può morire non appartiene forse allo stesso paradigma della leggenda delle “commissioni di morte”? E se fossi io, uno dei dieci campagnoli condannati a morte?
Paranoia, certo – ma diceva Delmore Schwartz che anche i paranoici hanno dei nemici veri, e l’idea che sulla nostra vita si esercita un potere che non controlliamo e non conosciamo non è monopolio di questa destra. A New Orleans, dopo Katrina, una quantità di afroamericani dei quartieri poveri era (e rimane) convinta che gli argini siano stati fatti saltare in modo da mandare la piena nei loro quartieri e salvare la New Orleans ricca e turistica. Sarà paranoia, ma gli afroamericani storicamente hanno avuto buone ragioni di pensare che lo stato non gli appartiene e che sarebbe davvero capace di fare una cosa del genere: nell’alluvione del 1927, quella di cui cantano infiniti blues, forse successe davvero; e dopo tutto, lo stato non mandava proprio i neri e i latini a farsi ammazzare in prima linea in Vietnam? chi decideva chi vive e chi muore? e chi decide chi decide? Se lo hanno fatto ai neri e ai portoricani, perché non potrebbero farlo agli hillbilly campagnoli che hanno votato per Rand Paul? Intanto, in queste elezioni i votanti afroamericani e latini sono diminuiti (a 13 a 10 e da 9 a 8 per cento) e sono aumentati quelli rurali.
Perciò, a suo modo, anche il Tea Party parla di noi. Nella pagina più efficace del suo The Audacity of Hope. Barack Obama scriveva che la ragione per cui la Costituzione americana ha funzionato è la sua origine in forma di negoziato, dialogo, compromesso; ma riconosceva che ci sono momenti in cui il senso delle cose lo esprimono invece gli idealisti e gli estremisti, come gli antischiavisti al tempo della guerra civile. E aggiungeva, nella sua incrollabile fiducia bipartitica, che questo vale anche per gli estremisti dell’altra parte, per cui bisogna stare comunque attenti a quello che dicono, non per farlo proprio ma per leggerne i segnali.
Se proviamo a leggere i segnali della nuova ondata di destra, non ci possiamo consolare con la constatazione che molti dei candidati più assurdi non sono stati eletti: le paure che hanno alimentato questo movimento (insieme con una quantità spropositata di soldi) sono condivise da una fascia ben più ampia di elettori repubblicani (e non solo). E nascono dalla radicalizzazione di domande che ci poniamo anche noi: che fare della rappresentanza, della democrazia, del rapporto fra cittadino e stato, fra legge e coscienza, nell’età della globalizzazione? Le risposte dei repubblicani americani sono retrograde, preoccupanti e controproducenti. Ma se noi non immaginiamo risposte diverse, se la sinistra non ritrova la sua missione di renderci protagonisti delle decisioni che ci riguardano tutti, finiremo per subire un futuro in cui al crollo e allo svuotamento della rappresentanza e della partecipazione, alla crescente separazione fra il potere e la maggioranza dell’umanità, si risponderà solo con la delega fideistica (al dittatore buono e santo o alla commissione di tecnici – Berlusconi e Bertolaso, o loro controfigure?) o con la rabbia paranoica, o con tutte e due le cose insieme.

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