03 dicembre 2010

"They say in Harlan County". Le lotte dei minatori del Kentucky

"They say in Harlan County". Le lotte dei minatori del Kentucky nell'ultimo libro di Alessandro Portelli
intervista ad Alessandro Portelli di Susanna Marietti - pubblicata sulla rivista "Terra" il 2.12.

“They say in Harlan County. An oral history”: è questo il titolo dell’ultimo libro di Alessandro Portelli appena pubblicato per la Oxford University Press, che avremo in Italia i primi mesi del prossimo anno. Attraverso interviste raccolte lungo ben 25 anni, il volume – che le recensioni qualificano come indimenticabile – racconta un’intera cultura, quella della contea di Harlan nel Kentucky, famosa per le lotte dei minatori e per la tradizione di protesta dei lavoratori. Portelli insegna letteratura angloamericana all’Università La Sapienza di Roma ed è uno dei massimi esperti mondiali di storia orale. Con questo metodi ci ha regalato in passato moltissimi racconti, che spaziano dalle lotte operaie a Terni alle Fosse Ardeatine e altro ancora.
Alessandro Portelli, come nasce quest’ultima fatica (ed è il caso davvero di chiamarla così)?

La prima intervista di questo libro è in realtà del ’73. Dunque sono 37 anni che ci lavoro, ma 25 sono quelli in cui sono andato lì ogni anno. Ora che il libro è finito devo trovare un’altra scusa. Ormai quella è casa mia, ho persone cui voglio bene che devo continuare ad andare a trovare. La nascita del libro è, possiamo dire, proprio sessantottina. Parte dalla passione americana che coltivavo dagli anni della scoperta del rock’n’roll e poi dei movimenti per i diritti civili. E della scoperta di un patrimonio musicale, perché Harlan è uno dei grandi luoghi da cui viene la musica americana. Qui c’erano canzoni di protesta molto radicali.

Compresa quella da cui viene il titolo del libro, no?

Sì, è una canzone anch’essa degli anni ’30. “They say in Harlan County there are no neutrals there…”. A Haran County ti dicono: guarda che non si può essere neutrali. O fai il crumiro o stai col sindacato.. Insomma: la scoperta di una cosa che in qualche modo la nostra pubblicistica negava. Per usare una parola desueta, la lotta di class. Negli Stati Uniti, paese dove si affermava che le classi non esistessero. Questo mi affascinò molto. E mi affascinò la relazione che esisteva tra una storia di conflitto sociale e una straordinaria ricchezza di patrimonio musicale, narrativo, di cultura orale. Quindi il fascino veniva proprio da questa idea di un luogo dove non solo c’erano state le lotte, ma queste lotte erano state raccontate con gli strumenti della cultura popolare e della cultura orale.

I documenti scritti, veritieri o menzogneri che siano, restano immutati. Interrogando una persona due volte sullo stesso argomento, accadrà invece innanzitutto che lo racconterà con parole - e quindi con sfumature - diverse. Ma, soprattutto, potrà essere diversa la sua memoria. Come è riuscito a risolvere il problema della memoria delle persone intervistate?

Intanto in una maniera molto semplice: le interviste sono tutte datate. Quando è rilevante il momento in cui sono state fatte lo dico già nel testo. Poi nell’appendice c’è sempre la data, per poterle collocare nel tempo. Ho puntato soprattutto ad ampliare il numero delle persone intervistate, però con alcune ho avuto invece un rapporto longitudinale. Dopo i primi anni, sono stato ospite di una famiglia di minatori, di lavoratori. È una famiglia che ho intervistato nel corso di 25 anni. Pensate che ero presente il giorno in cui un bambino della famiglia è nato, e 25 anni dopo l’ho intervistato. Altro che cambiamento della memoria...

Ci saranno stati anche quelli in tutti questi anni.

Devo dire che non ho verificato particolari contraddizioni o trasformazioni. Si tratta più di un senso di nuova relazione con nuove situazioni. Per fare un esempio: quando facevo le prime interviste, la memoria del disastro ambientale prodotto dalle miniere a cielo aperto era molto viva. Viceversa, era quasi dimenticato il disastro ambientale prodotto dal taglio delle foreste. Ma siccome a metà degli anni ‘90 ricominciarono a tagliare le foreste, ecco che questa memoria è tornata viva ed è tornata in discussione. L’altro elemento molto importante è ovviamente l’oblio, la cancellazione, il silenzio. Alcuni di questi momenti di conflitto sociale, di lotta di classe, che noi troviamo così gloriosi, sono ricordati anche con sofferenza e difficoltà. E quindi spesso sono cancellati. Quello dei silenzi, delle censure, è un tema che nel libro è presente.

Il tema della memoria mi sembra tocchi un nodo strutturale della storia orale. La memoria, come abbiamo detto, è fallibile. Ma c’è anche un altro aspetto della questione: la testimonianza di una persona può essere veritiera dal suo punto di vista, ma può essere tuttavia falsa perché quella persona aveva accesso a fonti fallaci. Le chiedo: quanto è importante che la storia orale sia rispondente alla realtà e quanto invece la sua importanza sta nel parlarci parla della percezione della gente intervistata?

Ho sempre sostenuto che per poter capire che percezione hanno le persone dobbiamo sapere cos’è l’oggetto che percepiscono. Quindi dobbiamo lavorare su due piani: sulla ricostruzione, nella misura in cui è possibile, dei fatti. E questo lo facciamo tra l’altro basandoci anche su documenti scritti, che sono esattamente altrettanto fallibili quanto gli altri, sia pure magari per ragioni diverse. Non è che una cosa che è permanente è automaticamente vera: può essere anche un errore che si tramanda nei secoli. Comunque lo facciamo sicuramente intrecciando una molteplicità di fonti (intanto, appunto, intrecciando sullo stesso evento trenta persone che me lo raccontano, oltre alle fonti a stampa, ai giornali, agli archivi, alla pubblicistica). Quindi è assolutamente importante per la storia orale sapere che cosa è successo, nei limiti in cui lo si può sapere. Perché solo se sappiamo che cosa è successo possiamo ragionare sul significato di eventuali scarti, di eventuali silenzi, di eventuali errori, anche di eventuali menzogne. Dunque bisogna fare il lavoro dello storico. E poi bisogna fare anche il lavoro dell’antropologo, dello psicologo, del narratologo, di quello che è. Cioè bisogna vedere la relazione.

Ci fa capire meglio?

In questo periodo sto tenendo un corso sul “Benito Cereno” di Melville. Questo romanzo racconta un fatto veramente accaduto. Però il fatto è veramente accaduto nel 1821 e la nave si chiamava El Juicio. Nel romanzo di Melville è collocato nel 1799 e la nave si chiama San Dominique. Sta mentendo o sta costruendo senso? Noi ci rendiamo conto che sta costruendo senso precisamente perché sappiamo che ha alterato i dati di fatto. Questo vale per un testo letterario e vale per tutte le narrazioni, e in particolare appunto per narrazioni così soggettive, così personali come sono quelle della storia orale. L’altro discorso è quello della mobilità della storia orale, della memoria, cioè appunto una persona dimentica, ricorda o racconta diversamente nel corso del tempo. Una delle cose che noi facciamo, io credo, è un lavoro di una storia della memoria. Come le Fosse Ardeatine venivano raccontate dai protagonisti nel 1950 poi nell’80 poi nel ‘90 è molto affascinante perché mostra la memoria come lavoro non come deposito. La memoria non è un testo, ma è una performance. Io tendo a preferire il verbo “ricordare” al sostantivo “memoria”.

Quindi c’è una trasformazione anche all’interno del suo racconto?

Sicuramente c’è una trasformazione all’interno del mio racconto, nella misura in cui il mio racconto documenta le trasformazioni dei racconti che ascolto. Quando ho cominciato a fare storia orale l’ho fatto perché mi accorsi che un certo episodio cruciale della storia del movimento operaio a Terni veniva raccontato in modo sbagliato da un sacco di gente . Quindi ci doveva essere qualche senso in questo errore. Questo mi deriva naturalmente dal fatto che, provenendo dalla letteratura e non dalla storia, so benissimo che Renzo Travaglino non è mai esistito, ma non per questo penso che i “Promessi Sposi” non significhino niente. La prima cosa che feci fu andare a guardare l’archivio, andare a guardare gli atti giudiziari, quindi i documenti scritti. La prima frase del primo documento che apre il fascicolo è la seguente: “da testimonianze verbali raccolte risulta che…”. L’intero apparato della documentazione scritta giudiziaria comincia cioè con testimonianze verbali. E a questo punto mi domando: raccolte da chi? Raccontate da chi? Trascritte come? Se la memoria è fallibile, quanto è attendibile quel verbale? Come si chiamava il brigadiere che l’ha scritto? Con chi aveva parlato? Tra l’altro, nessuno scrive nello stesso momento in cui avvengono le cose, ma sempre con qualche distanza di tempo, sia pure breve. C’è dunque memoria già nel documento scritto. La questione della memoria si pone sempre, non soltanto con le fonti orali. Solo che con le fonti orali è centrale, si pone in maniera drammatica, assolutamente pervasiva. Un grande storico come Nicola Gallerano, dopo che avevamo avuto lunghi incontri e discussioni, scrisse che la storia orale mette in discussione l’intero apparato delle fonti. Penso che in qualche modo molti degli storici più avvertiti, Claudio Pavone ad esempio, se ne siano resi conto e ci abbiano ragionato.

Oggi in dieci milioni in Italia guardiamo il programma di Saviano e Fazio che sta muovendo qualcosa. Una delle caratteristiche precipue della storia orale è senz’altro questo: le interviste sono fatte non ai primi ma ai secondi, non si intervista solo Clinton ma si intervista il minatore. Quel programma un po’ sta facendo questo: porta i secondi a leggere gli elenchi e a parlare. Di che tipo di cultura si tratta secondo lei?

A me piace molto. Penso che sia il meglio della cultura civile di questo paese. Welby, Englaro, il rappresentante delle vittime di Brescia, con la dignità e la fermezza con cui parlano, esprimono il meglio della cultura civile che l’Italia, in un momento in cui tanta gente dice di vergognarsi di essere italiana, è comunque ancora capace di produrre.

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