15 dicembre 2010

Una storia del movimento per i diritti civili

"l'Indice", dicembre 2010

Nell’estate del 1981 ero nell’ufficio di Myles Horton alla Highlander Folk School in Tennessee. Mentre parlavamo, entra una collaboratrice e dice, “c’è Rosa Parks al telefono”.
Alla giustamente celebre Rosa Parks e all’ingiustamente poco conosciuto Myles Horton dedica pagine puntuali ed eloquenti, Nadia Venturini in Con gli occhi fissi alla meta. Il movimento afroamericano per i diritti civili 1940-1965, l’analisi più approfondita e la sintesi più completa di questa vicenda che sia apparsa finora in Italia (Franco Angeli, 2010, 426 pagine, E. 44). Rosa Parks era la mitica signora di Montgomery, Alabama, che rifiutandosi di lasciare un posto riservato ai bianchi su un autobus aveva messo in moto il boicottaggio che segnò una svolta decisiva nel movimento dei diritti civili. Myles Horton era il fondatore della scuola di base di Highlander, che nel Sud segregazionista aveva formato quadri sindacali negli anni ’30, attivisti dei diritti civili negli anni ’50 e ’60, e militanti ambientalisti e di comunità negli Appalachi fino ad oggi.
Sentire che “Rosa Parks è al telefono” significò improvvisamente rendermi conto della realtà di una figura che era sempre stata collocata nella sfera del mito. Quando Myles mi spiegò che prima di quel suo storico gesto Rosa Parks aveva partecipato a un workshop a Highlander (e aveva anni di impegno nella NAACP, la National Association for the Advancement of Colored People), capii che non si era trattato, come era stato raccontato, di una vecchia signora coi piedi stanchi che non ce la fa ad alzarsi, ma del gesto consapevole di un’attivista cosciente. E che il movimento dei diritti civili non era stato solo sofferenza, passione, emozione, sacrificio - ma anche, meno romanticamente ma in modo più maturo – intelligenza, soggettività, organizzazione: in una parola, politica. Senza perdere nessuna delle connotazioni che ne avevano fatto un mito, il movimento entrava nella storia.
Questo è infatti l’impianto del libro di Nadia Venturini. Senza dimenticare le passioni, le sofferenze, le vittime, l’autrice segue in modo minuzioso ma mai pedante le vicende politiche e organizzative. Una rapida sintesi del retroterra storico a partire dagli anni della Ricostruzione dopo la Guerra Civile mostra quanto profonde fossero le radici del movimento che esplose negli anni ’50: infatti, come sottolinea Venturini, figure centrali come Ella Baker e A. Philip Randolph datano il loro impegno e il loro lavoro organizzativo da diversi decenni prima.
Venturini ricostruisce giorno per giorno le fasi cruciali del movimento, da Montgomery ad Albany, da Birmingham a Selma. Così, nella vicenda del boicottaggio di Montgomery rende giustizia a una figura decisiva come il ferroviere e sindacalista E. D. Nixon, che ne fu l’anima politica e organizzativa: fu lui a rendersi subito conto che l’arresto di Rosa Parks, lavoratrice irreprensibile e rispettata, era l’occasione giusta per mobilitare la comunità (mi è stato più volte raccontato che altre donne in precedenza avevano opposto lo stesso rifiuto; ma erano tutte in qualche modo screditabili, non avevano la stessa consapevolezza, e non esistevano le condizioni organizzative).
E. D. Nixon lo ricordano solo gli storici e i reduci del movimento; la figura che tutti identificano con Montgomery e con tutto quello che venne poi è il giovane pastore Martin Luther King, Jr. “Non è stato King a creare il movimento”, dirà poi E. D. Nixon, “ma il movimento a creare King”. Tuttavia da questo libro King non esce ridimensionato, ma reso più articolato e complesso: il suo carisma e la sua oratoria sono solo l’aspetto visibile di un faticoso impegno per tenere unito il movimento, creare sintesi praticabili fra le sue componenti, e rappresentarlo davanti al potere locale e federale. Tutti identificano la Marcia su Washington del 28 agosto 1963 con l’indimenticabile discorso di King; ma Nadia Venturini ci ricorda che gli interventi furono molti, diversi e anche problematici: basta pensare alle complesse mediazioni per limare il radicalismo dell’intervento di John Lewis dello SNCC.
Alcune parti del libro sono narrativamente appassionanti. La dettagliata cronaca della campagna di Birmingham, per esempio, crea un autentico senso di suspense che si risolve con la clamorosa entrata in scena degli adolescenti, la “crociata dei bambini” delle scuole medie. Tuttavia, Venturini non indulge ad emozionalismi: anche tragedie come la strage delle bambine nella chiesa di Birmingham o l’assassinio di Viola Liuzzo sono raccontate con la sobrietà dell’understatement. Venturini menziona solo di passaggio l’aspetto culturale, l’uso della musica, la relazione ambivalente che attraverso la musica si istituisce con la memoria della schiavitù. Se ne sente un poco la mancanza; ma è un modo per dirci che, in un’epoca in cui media e politica traboccano di richiami alle “emozioni”, il convolgimento e il rispetto non passano attraverso facile pietà e commozione, ma attraverso la conoscenza.
La possibile relativa sottovalutazione della spontaneità è peraltro compensata dall’attenzione ai livelli dell’organizzazione. Venturini descrive le vicende e i protagonisti della Southern Christian Leadership (SCLC) di Martin Luther King – e di Ralph Abernathy, James Lawson, Andrew Young; ma dedica capitoli anche alla Highlander Folk School, al Southern Educational Fund di Carl e Anne Braden (due degli eroi del radicalismo bianco del Sud), al Congress for Racial Equality (CORE) e allo Student Non Violent Coordinating Committee (SNCC).
L’unità del movimento nelle fasi cruciali ha fatto sì che venisse percepito a volte come un’unità indifferenziata. Ma Ventuirini mostra invece come vi si rifletta la complessità di tutta la società afroamericana. Il libro segue le stratificazioni generazionali (dalla generazione ante-guerra di Ella Baker e Randolph a quella di mezzo di Martin Luther King e dei suoi collaboratori, a quella dei giovani delle università, delle scuole medie, dello SNCC) e soprattutto di classe: da un lato, figure come E. D. Nixon e A. William Randolph che venivano dal sindacato; Bayard Rustin, scomodo per la sua omosessualità e la sua vicinanza alla sinistra, ma fondamentale per l’intelligenza organizzativa e politica; Fred Shuttleworth, proveniente dalle fasce più povere del Sud rurale. Dall’altro, i pastori, professionisti, uomini d’affari neri – le loro riluttanze e dubbi, e le loro mediazioni, spesso decisive nei momenti di crisi.
Tutto è attraversato dalla differenza di genere: Venturini sottolinea il ruolo delle estetiste afroamericane, i cui negozi diventano imprevedibili centri di informazione e di organizzazione; delle sarte e cucitrici come Rosa Parks; delle insegnanti come Septima Clark, protagonista delle “scuole di cittadinanza” che preparavano i neri per la conquista del diritto di voto. Ma la figura più memorabile è quella di Fannie Lou Hamer, bracciante cinquantenne del Mississippi, la cui resistenza comincia nel momento in cui – proprio come tante donne nella Resistenza italiana – ospita in casa gli attivisti venuti a organizzare i braccianti per il diritto di voto nel posto più pericoloso d’America. Come nella Resistenza, basta questo a rischiare la morte, a vedersi buttar fuori dalla casa e dalla piantagione dove ha lavorato tutta la vita. Ma da quel momento la voce straordinaria di Fannie Lou Hamer si alza, in canto e in oratoria, a far risuonare i diritti, l’intelligenza e il coraggio di un movimento che neppure la violenza che la rese invalida per tutta la vita bastò a far tacere.

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