27 gennaio 2011

"Milano Corea" di Montaldi e Alasia

il manifesto 27.1.2011

Come ogni classico, Milano, Corea di Franco Alasia e Danilo Montaldi (Donzelli 2010, pp. 335, E. 28, nota introduttiva di Guido Crainz) si apre a tantissime letture – in termini (anche attualizzanti) di storia delle migrazioni, di storia della sociologia e delle scienze sociali, di storia urbana, storia del lavoro… A me, che lo leggo a cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione,fa effetto soprattutto il modo in cui è stato prodotto. C’è un’espressione americana – leg work, lavoro di gambe – che descrive la fatica fisica e la minuziosa osservazione in cui consiste quello che si suole chiamare “lavoro sul campo”. Alasia e Montaldi hanno lavorato di gambe per fare questo libro: andando a cercare le fonti nelle periferie, nei comuni del circondario, nelle “coree”, gli agglomerati spontanei generati (come i borghetti dei baraccati a Roma) dalla modernità e dalle ingiustizie del “miracolo italiano”, facendo il “giro di Milano” per andare a vedere le facce e i vestiti di chi stava seduto sulle panche in attesa di una minestra in parrocchia, per rendersi conto dei complicati percorsi quotidiani di chi metteva insieme una vita dai frammenti dell’esclusione e della marginalizzazione, costruendosi la casa letteralmente con le macerie recuperate e con gli avanzi dei cantieri.
Lavoro di gambe significa camminare, e quindi guardare il mondo dal livello della strada (del prato, del vicolo, del fosso, del parco notturno, del pavimento mezzo finito della casa auto costruita) – non tanto “dal basso” quanto orizzontalmente. Mettersi al livello della strada è un modo di viaggiare vedendo i dettagli che sfuggono allo sguardo egemonico dall’alto; ed è anche un significativo gesto di umiltà: vuol dire rinunciare all’arroganza implicita nel ruolo di “osservatore” in relazione reificante con l’”osservato”, e disporsi invece a un ascolto, a un apprendimento che deriva dell’incontro fra persone che si guardano fra loro (inter\vista infine significa questo). Che questo, infine, è il principio di ogni ricerca sul campo: un progetto di incontro, un riconoscimento di non sapere, uno sguardo su quello che non si vede.
L’Italia del miracolo economico è piena di luoghi e persone non visti: la “corea” milanese di Alasia e Montaldi è il corrispettivo settentrionale della “terra del rimorso” e delle “indie di quaggiù” di Ernesto De Martino e della Partinico siciliana di Danilo Dolci. Per questo, gli strumenti della sociologia convenzionale, specie nella versione positivista parsonsiana allora dominante ma anche nel progressismo tecnocratico con cui Montaldi polemizza tutta la vita, sono inadeguati alla conoscenza di queste realtà. Ci vuole qualcosa di più aperto, qualcosa in cui l’agenda delle domande e dei problemi non sia posta a priori ma sia derivata dall’osservazione e dall’ascolto senza preconcetti. Così, Alasia e Montaldi sono fra i fondatori di quella ristretta schiera di ricercatori, tutti fuori dell’accademia e ai margini della politica ufficiale, che usano in primo luogo le storie – biografie, storie di vita, ma anche semplicemente racconti: Danilo Dolci, appunto (di cui Alasia fu allievo e collaboratore), Rocco Scotellaro, il Goffredo Fofi dell’Immigrazione meridionale a Torino, e io ci metterei anche Gianni Bosio. E non è un caso se, come fa notare Guido Crainz nell’introduzione a questa nuova edizione, quegli anni sono stati raccontati soprattutto dal cinema e dalla letteratura.
Credo che sia stato Erich Auerbach a dire che ci sono due modi per affrontare un dilemma: quello logico di Atene e quello narrativo di Gerusalemme. Sono entrambi necessari, e Montaldi e Alasia li padroneggiano entrambi (forse l’unica concessione alle modalità espositive delle scienze sociali del tempo è proprio la separazione fra il discorso analitico autoriale dell’ampio saggio introduttivo e quello narrativo delle storie di vita), ma fin dai capitoli dell’introduzione sulle periferie, sul parco, sui viali, ci si rende conto di come la modalità narrativa contamini l’esposizione saggistica. Perché il racconto esorbita sempre dalle aspettative a priori e dai limiti dell’interpretazione; digressivo, elusivo, carico di dettagli non richiesti e quindi più necessari, tessuto di vuoti pesanti e silenzi eloquenti, invaso dall’immaginazione e dal desiderio, il racconto è sempre più ricco di quello che possono dire un commento e un’analisi. Soprattutto, il racconto, specie il racconto della memoria, è una creazione individuale che sfida le necessarie astrazioni e generalizzazioni della sintesi quantitativa e statistica e ci mette sotto gli occhi l’immagine di un mondo fatto non di caselle rese identiche per renderle misurabili, ma mosaico di tessere una diversa dall’altra – di individui ognuno irriducibile e unico - che solo con immaginazione e partecipazione possiamo comporre in un insieme dotato di senso.
Le coree e le periferie milanesi raccontate in questo libro, allora, contengono molto più cose di quanto non ne prevedesse la nostra ragione indagatrice. Contengono il mondo antico che è ancora presente nella memoria e nell’identità – la terra del padrone che si misura in quattro ore di cavalcata per attraversarla, l’assalto dei briganti alla carovana in Molise, il memorabile viaggio dalla Sadegna a Milano attraverso Civitavecchia e Genova alla scoperta di un mondo nuovo, il primo cinematografo, la prima automobile, le guerre – e una modernità di carta fatta di licenze, tessere, permessi, verbali, multe, fogli di via, certificati, documenti… in un’Italia in cui le leggi fasciste ancora vigenti fanno di questi migranti dei clandestini indesiderati e senza documenti.
Mi rendo conto di stare facendo forse quello che Alasia e Montaldi volevano assolutamente evitare: leggere Milano, Corea come un “libro letterario” (mi viene in mente una celebre frase del romanziere afroamericano Richard Wright, che non voleva scrivere un libro su cui anche “le figlie dei banchieri” si potessero commuovere). Ma forse i tempi sono cambiati, e letteratura e sociologia hanno smesso di trattarsi reciprocamente come insulti – come sinonimi l’una per l’altra di genericità, approssimazione, sentimentalismo. Milano, Corea è un “libro letterario” perché fa spazio alla soggettività: la conoscenza sta sì nelle tabelle statistiche e nei documenti ma anche, forse soprattutto, nelle pieghe del linguaggio; la fatica e il desiderio dell’integrazione li percepiamo più nel linguaggio di un immigrato meridionale che usa una locuzione prettamente milanese (“ero dietro a dormire”) che in tanti dati oggettivi.
C’è molto altro, ovviamente, in Milano, Corea: per esempio, intuizioni taglienti sulle trasformazioni della politica, le divaricazioni che si vengono formando all’interno di una sinistra in cui qualche amministratore illuminato può vedere l’immigrazione come opportunità di crescita, in cui gli operai e i disoccupati immigrati iscritti al partito la vivono come sfruttamento, e in cui i sindacalisti stanno presi in mezzo. C ‘è, per chi legge oggi, l’inevitabile parallelo con l’immigrazione attuale, con la barriera di carta dei permessi di soggiorno dopo quella metallica dei respingimenti, e con le baraccopoli e i rifugi di fortuna che ancora si agglomerano intorno alle città. Ma la differenza è che, nonostante la quantità e la qualità di molte ricerche, un lavoro della portata e della profondità di Milano, Corea sull’immigrazione di oggi ancora lo stiamo aspettando.

26 gennaio 2011

Podcast: Rai e USA, storia orale, Ardeatine, Terni, Kentucky

Il 27 gennaio è andata in onda su Radio 3 una puntata del programma Tre Colori (sui 150 anni dall'unità d'Italia), dedicata alle Fosse Ardeatine, curata da me. Si può ascoltare in podcast su www.radio.rai.it/radio3/podcast/rssradio3.jsp.
Lo scorso ottobre in North Carolina sono stato intervistato da Dick Gordon, un giornalista radiofonico molto conosciuto, per un programma intitolato "The Story with Dick Gordon" trasmesso nazionalmente sulla National Public Radio. Abbiamo parlato della storia orale, delle esperienze di lavoro a Terni e in Kentucky, del "metodo" (se esiste) dell'inervista. Il programma si può ascoltare su http://thestory.org/archive/The_Story_12611_Full_Story.mp3/view. Un breve supplemento, sull'intervista, si trova in http://thestory.org/archive/Interviewing_advice_from_Alessandro_Portelli.mp3

11 gennaio 2011

Mark Twain e le parole proibite

il manifesto 11.1.2011

L’ultima pretestuosa polemica sul “politicamente corretto” che ci arriva dall’America è la riproposizione dell’annosa querelle sul linguaggio di uno dei capolavori di quella letteratura, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain (1885).: si tratta di proprietà di linguaggio perché nel libro compaiono parole indicibili; e di proprietà del linguaggio perché c’è oggi chi si adopera per sostituirle con parole proprie e più educate. E’ una vecchia storia, che comincia nel momento stesso dell’uscita del libro, ma che riproposta oggi parla anche di noi.
The Adventures of Huckleberry Finn è la storia di un ragazzino del Sud schiavista, orfano, marginale e vagabondo, che scappa sul fiume Mississippi insieme con uno schiavo nero di nome Jim, entrambi in cerca di una loro idea di libertà. Non è affatto sicuro che questa ricerca alla fine abbia successo, anzi il libro finisce in modo ambiguo e per molti deludente. Ma in una cultura occidentale che ha fatto poco e male i conti col proprio inestirpato razzismo, è bastato a fare di Huckleberry Finn uno dei pochi testi che lo raccontano con un minimo di coraggio e di articolazione. Questo – oltre al fatto che è stato scambiato fin dall’inizio per un libro per ragazzi - ha contribuito a promuoverne letture semplificate e riduzioniste, in cui il disorientato e fantasioso vagabondo Huck Finn viene appiattito in una specie di modello di ruolo dei buoni sentimenti e un’icona antirazzista.
Ma c’è un ostacolo: dall’inizio alla fine, per più di cento volte, Huck Finn usa una della parole più razziste del lessico americano: “nigger”, il termine insultante che bolla con disprezzo e disgusto gli afroamericani. E’ bastata questa parola per escludere il libro da molte biblioteche e scuole degli Stati Uniti, finché non è arrivato il genio che ha rimosso l’ostacolo: una nuova edizione del classico di Mark Twain curata dal professor Alan Gribben, infatti, cancella la incriminata “parola con la enne” e la sostituisce con quella apparentemente meno offensiva di “schiavo”. E’ un po’ come quelle edizioni vittoriane di Shakespeare ripulito di tutte le parolacce e i doppi sensi: potrebbe il Bardo essere volgare? e potrebbe l’icona Huck Finn usare parolacce razziste?
Ebbene sì: così parlavano quelli come lui in quei tempi e in quei luoghi e Huck non sarebbe credibile se parlasse in un altro modo. Faccio un esempio: dopo una discussione in cui è stato sconfitto dalla logica stringente del suo compagno di avventura, Huck conclude che “non puoi insegnare a un nigger a pensare”. Difficile pensare a una frase più razzista – ma se invece gli facciamo dire “non puoi insegnare a uno schiavo a pensare” o non ha senso o, se ne ha uno, è solo quello di confermare che gli schiavi sono intrinsecamente incapaci di pensare. A parte che un lettore minimamente attento capirebbe benissimo che quello che Huck realmente pensa è che “non puoi insegnare a un n- a pensare come me, come voglio io che pensi”. Quella che Huck scambia per inferiorità il libro ce la fa capire come differenza.
I ripulitori e i censori ben intenzionati sembrano non capire una cosa che dovrebbe essere ormai scontata per ogni insegnante, e per ogni lettore avvertito: una cosa è quello che dice un personaggio, e una cosa è quello che dice il libro (se un personaggio grida “Ti ammazzo!” vuol dire che il libro è favorevole all’omicidio? ). La meraviglia del libro sta proprio in questo spazio: fra la “coscienza” e il linguaggio di un ragazzino cresciuto e socializzato a credere che la schiavitù sia un fatto naturale e immutabile sancito dalla naturale inferiorità dei neri e dalle Sacre Scritture (basta sentire come parla suo padre e che cosa gli insegnano in chiesa) – e la mentalità di lettori che hanno avuto la fortuna di nascere quando la schiavitù era già stata abolita (ma il razzismo ancora no, e questo è il punto). Il libro dunque si regge su una poetica e una politica dello straniamento: Huck vede le cose attraverso lenti diverse dalle nostre, scambia la poetastra Emmeline Grangerford per una grande artista, e fino alla fine resta convinto che aiutando Jim a scappare lui non sta liberando uno schiavo ma lo sta rubando, sottraendo a una innocente vecchietta la sua legittima proprietà consistente in un essere umano. Huck non crede di guadagnarsi il paradiso degli eroi della libertà ma l’inferno dei ladri e dei vagabondi a cui si sente destinato fin dall’inizio: “e va bene, ci andrò, all’inferno”, dice dopo aver preso la sua decisione. Per rendere il libro rispettabile, bisognerebbe aggiustare anche questo e mandarlo in paradiso; o anche, tutte le volte che dice “rubare un negro”, fargli dire “liberare uno schiavo” (e dopo tutto, anche “hell”, inferno, è una parolaccia per gli anglofoni bene educati).
Ma Huck non agisce per convinzione antirazzista e antischiavista, ma per qualcosa di più profondo e più limitato – l’amicizia con Jim. Certo, questa è resa possibile dal superamento di certi stereotipi (ma pensa un po’, si dice a un certo punto, non avrei mai immaginato che anche i negri volessero bene ai loro figli!) ma non diventa mai una visione generale. “Ruba” Jim perché si accorge che è un essere umano ma non riesce a desumere da questo un rifiuto dell’istituzione che gli nega l’umanità. E’ questa contraddizione, questo limite, che fa di Huck un personaggio diviso e quindi moderno anziché un pupazzo ideologico, e delle sue avventure un libro che ci chiede di pensare invece di rassicurarci. Quanto sarebbe più banale e consolatorio se alla fine Huck “prendesse coscienza” e diventasse un rispettabile eroe abolizionista – cioè, se alla fine pensasse lì e allora come pensiamo (o come ci illudiamo di pensare) noi adesso. E invece Huck non pensa e non parla come noi – ma siamo proprio sicuri che, alle strette, noi agiremmo come lui, che in violazione di ogni regola e legge ci giocheremmo l’anima per un singolo bracciante di Rosarno o per un migrante su un barcone nell’Adriatico?
Huckleberry Finn dunque non si può ricondurre né alla categoria tranquillizzante del politicamente corretto né all’ancor più ipocrita retorica del politicamente scorretto come segno di popolaresca autenticità. Il linguaggio di Huck è un campanello d’allarme: ci avverte che quando il razzismo si fa senso comune arriva a contaminare anche le persone più “innocenti”, comprese le nostre, e che quindi dobbiamo tutti stare in guardia. Ripulirlo significa negare questo rischio incombente, coprire il sintomo e lasciare intatta la malattia, e lasciarci più indifesi davanti al cattivo senso comune che ci assedia.
Qualche giorno fa ho ricevuto un e mail da una studentessa rumena che aveva seguito dei seminari su Huckleberry Finn (e su un testo ancora più complicato, Benito Cereno di Melville). In breve e con cognizione di causa diceva: oggi di schiavi e di negri non si parla più, ma la schiavitù e la discriminazione esistono, basta parlare un’altra lingua o essere di un’altra religione. E allora, è vero che non sono cose separate, ma una cosa è fare attenzione alle parole, un’altra è fare attenzione al modo di pensare e di rapportarsi: la differenza fra ipocrisia e correttezza politica è quella che esiste fra parlare pulito e pensare pulito. Perché finché le abbiamo dentro, anche se cancelliamo le parole, le pulsioni ne troveranno altre per venire alla luce. In fondo, fino a qualche tempo fa, la lingua italiana non possedeva un equivalente di questa parolaccia razzista inglese: anche “negro”, come ha ricordato sulla Stampa un americanista importante come Claudio Gorlier (autore negli anni ’60 di una pionieristica Storia dei negri d’America) è diventato un insulto solo quando abbiamo cominciato a trattare gli immigrati africani come esseri di seconda categoria. E allora abbiamo inventato le parole che ci mancavano (“vu’ cumpra’”) e riciclato quelle che avevamo: “albanese” è stato sinonimo di “scemo”, tutte le parole usate per designare i rom si sono macchiate di odio, e l’Italia è piena di gente che dice “gay” e pensa “frocio”.
In entrambi i grandi romanzi di Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn, c’è una scena in cui qualcuno imbianca uno steccato. E’ una metafora molto eloquente nelle sue risonanze bibliche: una mano di bianco a coprire il fatto che dentro di noi, steccati imbiancati, non cambia niente, anche se non si vede più.

09 gennaio 2011

Un intervento sulla Costituzione

Tre estratti su you tube da un intervento sulle Fosse Ardeatine e sulla Cotituzione, Roma, Liceo Pasteur, 21 ottobre 2010.